La Cour Royale

Catherine-Noëlle Worlée, la moglie di Talleyrand

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marquise de Créquy
view post Posted on 14/12/2013, 22:59     +1   -1




Catherine-Noëlle Worlée nasce il 21 novembre 1762 a Tranquebar, piccola città dello Stato di Madras appartenente allora alla Danimarca, ma la sua nazionalità era francese; suo padre, cavaliere di Saint-Louis, fu “capitano per il Re” a Pondichéry e fu nominato qualche anno più tardi a Chandernagor, dove andò a stabilirsi con la sua famiglia.

Diventò donna presto, sotto il sole tropicale; la piccola Kate aveva appena quindici anni quando fu chiesta in matrimonio da un inglese di nome Georges-François Grand, cui bastò vederla per innamorarsi di lei e chiedere la sua mano. La giovane era nel fiore della sua giovinezza e passava per essere la più bella donna della colonia. François Grand non era più molto giovane, ma era impiegato all’“Indian Civil Service”; la sua situazione sembrava prospera e la bella Catherine non aveva il diritto di essere esigente, poiché la sua dote consisteva unicamente in qualche gioiello e una magra somma di dodicimila rupie.
I due sposi furono uniti in matrimonio prima da un prete cattolico, poi da un ministro protestante, ma nonostante la doppia benedizione, quest’unione era destinata a non essere fortunata. La felicità coniugale durò solo un anno, uno scandalo strepitoso cominciò a portare a una rottura. A causa dei suoi affari M. Grand si decise a stabilire la sua dimora a Calcutta e sua moglie lo seguì. Lui era positivo e serio, lei era spensierata e leggera. Magra e alta, Catherine aveva dei superbi capelli biondi, occhi blu ai quali delle sopracciglia e ciglia nere davano un fascino indefinito; colpiva per la tinta trasparente della sua pelle, per l’incarnato delle sue labbra, per il candore madreperlaceo dei suoi denti. Tutta la grazia delle donne creole sembrava incarnarsi in lei con la loro seducente nonchalance e la loro puerile frivolezza. Amava il piacere, il lusso, gli omaggi, tutto quello che brillava e tutto quello che riluceva e il suo animo leggero era incapace di resistere al minimo desiderio o al più assurdo capriccio che le suggeriva il suo cervello da bambina. M. Grand invece non aveva nulla del Don Giovanni, era di spirito spento e di aspetto pesante. Mal gestita da un marito così mediocre per il quale il suo cuore non aveva mai battuto, ascoltava compiacente le galanti frasi che le si bisbigliavano all’orecchio.

Sir Philippe Francis, funzionario inglese, consigliere del governo del Bengala, che cercava nelle imprese amorose una distrazione alle sue controversie con il marchese di Hastings, Governatore delle Indie, le prodigò le attenzioni più delicate. Una sera che sir Francis aveva approfittato di un’assenza di M. Grand per introdursi da sua moglie e dimenticò, nelle delizie di un tête-à-tete troppo lungo, la scala di bambù che gli era servita per raggiungere la sua bella, lasciandola imprudentemente sotto la finestra di Catherine. Dei servitori troppo curiosi, intrigati da quella scoperta, sorvegliarono le uscite e nel momento in cui il galante volle uscire nelle tenebre, si vide fermato come un malfattore e costretto a rimanere sotto sorveglianza. Nel frattempo il marito era stato informato, e s’incamminò in tutta fretta; cominciò a piangere la sua sventura, poi andò a cercare una spada per trafiggere il seduttore ma nel fare ciò impiegò un po’ di tempo, e quando arrivò al suo domicilio Sir Francis era già scomparso: i suoi amici, avvertiti in tempo, erano venuti in suo soccorso provocando una grande confusione, e nel tumulto uno di loro prese il posto di Francis. Arrivando M. Grand trovò un prigioniero sconosciuto che si lamentava ad alta voce cosa gli era stato fatto e che poteva, senza la minima pena, provare la sua innocenza intera.

In questa divertente avventura il pubblico non fu dalla parte del marito, e Sir Francis rifiutò di rispondere alla sfida a duello ricevuto l’indomani dichiarando con impertinenza che ignorava questa storia e di esserne completamente estraneo. M. Grand volle una riparazione, la reclamò ai tribunali ed ebbe soddisfazione nell’ottenerla. Il 6 marzo 1779 la corte di Calcutta condannò Sir Francis a pagare al marito oltraggiato 50,000 rupie come indennizzo.

Una volta pagata la sua ammenda, sir Philippe, che non aveva cessato di protestare del platonismo dei suoi sentimenti per la seducente Catherine, la venne a cercare a Chardernagor e non fece fatica convincerla a seguirlo. La fece dimorare sotto il suo tetto, e per un anno visse con lei in faccia al marito che lo qualificava nelle sue memorie come “rude, vecchio e sordo”.

Nel giro di 18 mesi i due amanti si separarono. La “bella Indiana”, nel mese di novembre 1780, salì su una nave olandese e s’imbarcò per l’Inghilterra. Sul suo soggiorno a Londra e sulla sua installazione a Parigi nel 1782 si sa poco. Se la si giudica dalle sue mises, il numero dei suoi gioielli (dei quali si possiedono le fatture) conduceva una vita di una donna alla moda, elegante e graziosa e verosimilmente di costumi facili. La si vede abitare in Rue du Sentier, poi in Rue d’Artois, un palazzo da 4,200 livres di affitto; vi dà delle feste e dei pranzi, frequenta l’Opéra, la Comédie Italienne e la Comédie Française. È in questo periodo che si fa ritrarre da Mme Vigée-Lebrun in quel quadro delizioso che è “una carezza per lo sguardo”, tanto la modella ci appare piena di grazia squisita con i suoi occhi sognatori, i suoi tratti armoniosi e fini, i suoi capelli d’oro.

Le risorse necessarie per condurre un tenore di vita simile le veniva da diversi amici che la proteggevano: Valdec de Lessart, ministro della “Legislative”, un finanziere di nome Rilliet-Plantamour, il deputato Monneron, senza contare Frénilly fra gli altri. Nelle memorie di quest’ultimo, ci racconta che portava a passeggio la bella Catherine nella sua elegante carrozza trainata da cavalli bianchi.

Fu in questo stesso periodo che Catherine conobbe il “bel Dillon” (zio di Mme de Boigne) riguardo al quale la celebre memorialista racconta una storia poco edificante. Se si fa riferimento al suo racconto, Edouard Dillon arrivò una sera lasciando l’Opéra per pranzare dalla bella Mme Grand della quale aveva a diverse riprese declinato gli inviti. Durante il pasto il “bel Dillon” complimentò la padrona di casa sulla bellezza dei suoi capelli; quest’ultima rispose, con un sorriso, che non ne conosceva ancora il merito e lasciando subito la tavola, passò in una stanza vicina. Quando rientrò, nel giro di qualche istante aveva tutti i capelli sciolti che cadevano fino a terra, ma la loro massa era così abbondante che aveva trovato superfluo aggiungere qualche altro velo: “ La cena finì in questo costume primitivo - aggiunge Mme de Boigne - e Edouard partì l’indomani per l’Egitto“.

I primi disordini della Rivoluzione vennero a guastare questa dolce e forse troppo facile esistenza; i massacri del 10 agosto finirono col terrorizzare Mme Grand: senza prendersi il tempo per munirsi di soldi e di mettere in sicurezza ciò che aveva di prezioso prima di lasciare a Parigi, fuggì in Inghilterra e sbarcò a Dover con in tasca una dozzina di luigi come sua fortuna.

Colpito dalla sua bellezza, toccato dalla sua tristezza, un giovane aspirante di marina il cui nome era Nathaniel Belchier si era innamorato tanto fin dal giorno del suo arrivo che si affrettò a mettersi ai suoi ordini, e non esitò a sfidare mille pericoli per andare a Parigi ad acquistare i valori e i gioielli che lei aveva lasciato.

Il soggiorno di Mme Grand in Inghilterra non fu quello sperato dalla donna, nonostante gli sforzi per farsi accettare dagli emigrati: tutte le porte le furono chiuse, così appena le parve che la Francia fosse ritornata vivibile, si affrettò a oltrepassare di nuovo la Manica, con un passaporto di compiacenza rilasciato dal Console di Danimarca. Arrivata in un modesto alloggio nella Rue Saint-Nicaise con Cristoforo Spinola, diplomatico della Repubblica di Genova, si attirò l’attenzione della polizia del Direttorio. Durante un’intera settimana una mezza dozzina di sbirri rimasero attaccati ai loro passi, poi li raggiunse un’ingiunzione per lasciare immediatamente la Francia. Spinola, giustamente sospettato, si sottomise senza recriminazioni; Mme Grand, al contrario, pensò di restare nonostante fosse sospettata di corrispondere con gli emigrati. Vedendo la sua situazione sempre meno sicura si decise ad andare a trovare Talleyrand per sollecitare la sua protezione.

La leggenda vuole che fu una sera verso le undici che la bella Catherine arrivò tutta tremante all’Hotel Gallifet, in Rue du Bac, dove era il Ministero degli Affari Esteri. Le accuse erano precise: la si accusava formalmente di patteggiare con l’Inghilterra, il suo arresto era imminente. Talleyrand non era nei suoi appartamenti. Abitualmente il ministro non era accessibile, ma lo svizzero Joris non osò congedare una così affascinante postulante e ottenne di aspettare il suo ritorno. Si sedette in un salottino e, siccome l’assenza del padrone di casa si stava prolungando, si addormentò profondamente in una poltrona accanto al camino. Fu là che Talleyrand la trovò a notte tarda. Bruscamente risvegliata, confusa e imbarazzata, Mme Grand spiegò timidamente la sua richiesta e presto, di fronte al comportamento glaciale del suo interlocutore, la sua emozione e il suo silenzio crebbero e scoppiò in lacrime. Talleyrand che subito aveva rifiutato il suo appoggio nel timore di compromettersi, cominciò a vacillare nel suo rigore. Nel giro di un quarto d’ora, la bella afflitta aveva vinto la sua causa. Per non farla uscire a un’ora così tarda e per sottrarla ai pericoli di un arresto, Talleyrand le fece preparare subito una camera nel Palazzo del Ministero, e l’indomani invitò con galanteria la sua protetta a colazione; a partire da questo momento le sue relazioni con lei divennero presto quotidiane.

Per quanto piccante sia questo racconto, la sua veridicità resta contestabile dato che è possibilissimo che a quest’epoca i due futuri sposi si fossero già incontrati, visto che avrebbero potuto conoscersi a Versailles prima della Rivoluzione, o più tardi a Londra o a Parigi. La sua dimora al ministero tuttavia non dovrebbe essere stata fatta subito, poiché nel marzo 1798 Talleyrand dovette intervenire in suo favore. La sua corrispondenza con il conte Lambertye era stata intercettata e la si era messa in prigione. La lettera che il ministro indirizzò a Barras è molto concitata sia per la vivacità dei suoi sentimenti che per il giudizio che dà delle sue attitudini, il suo carattere: “ Vi domando interesse per lei, giacché l’amo -diceva in sostanza- e garantisco al meglio la sua innocenza perché è la persona d’Europa più lontana e più incapace di immischiarsi a qualunque affare. E’ una vera Indiana, molto bella, molto oziosa e la più disoccupata di tutte le donne che abbia mai incontrato!”.

Volendosi mettere al riparo per il futuro da simili inquietudini, la futura principessa di Benevento approfittò del fatto che fosse nata in una colonia della Danimarca per farsi naturalizzare Danese, e nello stesso tempo chiedendo il suo divorzio dando come pretesto che da cinque anni non aveva avuto più notizie del marito e, su questo capitolo, le leggi rivoluzionarie erano ben accomodanti; il 7 aprile 1798 Catherine ottenne l’annullamento del suo matrimonio, seguito a poca distanza dalla sua radiazione dalla lista degli emigrati. La sua sicurezza era assicurata in modo definitivo.

Nel suo sontuoso Palazzo Gallifet, nella deliziosa villa che possedeva a Neuilly, Talleyrand riceve tutto quello che a Parigi conta in fatto di letterati, uomini politici, diplomatici e personaggi di spicco. Si vedono Ségur e Castellane a fianco di Roederer, di Portalis e di Murat. Vi si possono incontrare Mme Tallien, Mme Récamier, Mme de Staël, Mme de Cambis e Joséphine. Quando il principe ereditario di Parma e sua moglie, l’Infanta di Spagna, diventati sovrani d’Etruria attraverso il trattato di Lunéville, si recano alla festa senza eguali che Talleyrand offre loro a Neully, è una radiosa Mme Grand che fa loro gli onori a fianco del ministro ed è appoggiata al braccio del Re quando percorre i giardini illuminati. Ma un incidente sopraggiunse quando le ambasciatrici dovettero essere presentate al ministro degli Affari Esteri perché sollevarono qualche obiezione all’idea di essere ricevute da Mme Grand. L’eco delle loro diplomatiche lamentele arrivarono fino alle orecchie del Primo Console e preoccupato dell’ordine materiale come dell’ordine morale, quest’ultimo non esitò a chiamare immediatamente Talleyrand per intimargli un ordine formale di rottura.

Avvertita di questa misura rigorosa la bella Catherine urlò a più non posso e corse a gettarsi ai piedi di Joséphine che conosceva da lunga data. Andare a trovare Bonaparte, portargli senza perdere tempo un minuto la sua amica singhiozzante e spossata fu per la futura Imperatrice, un affare di qualche istante. Le lacrime, come abbiamo già visto, servivano come arma a Catherine Worlée e il dolore e la disperazione non facevano altro che aumentare il suo fascino. Bonaparte la trovò così toccante che si lasciò intenerire: “Consolatevi -le disse- ottenete che Talleyrand vi sposi e tutto sarà sistemato, ma bisogna che portiate il suo nome altrimenti non presentatevi più da lui!”. Mme Grand aveva davanti a sé ventiquattro ore, ed erano più di quanto sperasse per il suo trionfo. Prima ancora che fosse passato il tempo fissato da Bonaparte aveva convinto il suo amante ad acconsentire al matrimonio.

Il matrimonio si celebrò l’8 settembre 1802. Ordener e l’ammiraglio de Bruix erano testimoni dello sposo e il Generale de Beurnonville e Radyx Sainte-Foix erano quelli della fidanzata. Un pranzo alla vigilia, nella bella villa di Neuilly, avevano riunito i due fratelli di Talleyrand, Joséphine de Beauharnais, i tre Consoli, Bonaparte, Lebrun e Cambacérès, più il segretario di Stato Maret per la firma del contratto. La madre di Talleyrand, che viveva ancora, si era rifiutata di assistere al matrimonio che vedeva compiersi con afflizione. All’epoca del matrimonio riapparve il Signor Grand, il primo marito di Catherine ma diecimila sterline e un posto lucrativo nelle colonie olandesi ebbero la meglio sulle sue indiscrete rivendicazioni. Fu la stessa Mme de Talleyrand che s’incaricò di questa delicata negoziazione.

Negli anni a fianco del “Camaleonte”, Catherine sarà una perfetta padrona di casa e avrà questo ruolo ufficialmente fino al 1814, sebbene da tempo avesse perso tutta la sua influenza sullo spirito del marito. Dal giorno in cui Talleyrand farà sposare suo nipote a Dorothée de Courlande, avrà occhi solo per lei e il regno della Principessa di Benevento finì quando “Mme Edmond” andò a vivere con suo zio.

La Restaurazione rese difficile la situazione di Mme de Talleyrand, più di quanto fece l’Impero. Il primo le impose il matrimonio con brutalità, il secondo al contrario la obbligava alla separazione. Troppi emigrati si ricordavano del Vescovo d’Autun per abituarsi a incontrare sua moglie. Talleyrand lo comprese bene quando dovette partire per il Congresso di Vienna, fu sua nipote e non sua moglie a cui affidò di tenere il suo salotto nella capitale d’Austria. La principessa rimase a Parigi senza sollevare alcuna lamentela ma quando vennero i Cento Giorni, si rifugiò a Londra e quando suo marito ritornò con Luigi XVIII per riprendersi il suo posto alle Tuileries, lei non aveva ancora oltrepassato lo stretto.
L’occasione era favorevole e il Principe di Benevento non era uomo da lasciarsene scappare una simile, si affrettò a far sapere a sua moglie che, date le circostanze, una separazione s’imponeva tra di loro e che doveva rassegnarsi che fosse definitiva. Fu, si dice, il marchese d’Osmond, padre della Contessa de Boigne, che fu incaricato di questa delicata missione. La principessa di Benevento accettò con dignità la sua disgrazia. Senza formulare lamentele si sottomise alle condizioni drastiche impostele da questo marito che le domandava di sparire dalla sua vita, e lei accettò senza discutere una rendita di 60,000 franchi contro una promessa di non rientrare in Francia. Il castello di Pont-de-Sains per l’estate e Bruxelles per l’inverno dovevano servirle da residenze.

Nell’autunno 1817, giudicando le nebbie del Tamigi dannose per la sua salute, la si vede ritornare bruscamente a Parigi, decida a installarsi permanentemente. Mme de Talleyrand non cercò di rivedere suo marito, l’uno e l’altra si limitavano, due volte l’anno, a chiedere cortesemente ognuno notizie dell’altro e quelle furono le loro uniche relazioni.
La principessa di Benevento aveva affittato ad Auteuil il castello di Beauséjour dove viveva volontariamente lontano dalla società, conservando tuttavia le prerogative del suo rango.

Una contessa caduta in rovina le serviva da dama d’onore e l’accompagnava dappertutto dove si recava, ma aveva l’ordine formale di tenersi sempre cinque passi dietro la principessa. Tutti i giorni usciva a piedi ai giardini di Ranelagh e M. Beauvais, proprietario di Beauséjour, che aveva a volte l’onore di offrirle il braccio, ha lasciato un piccante racconto delle passeggiate della sua locataria. Quando la sventurata contessa dimenticò, per puro caso, di osservare le distanze, Mme de Talleyrand, che la sorvegliava, si voltò bruscamente e fulminandola con lo sguardo disse: “Indietreggiate, contessa, state perdendo il rispetto”.
Qualche anno più tardi, affittò un vasto palazzo in Rue de Lille. I personaggi importanti e gli stranieri di spicco ritornarono a sedere alla sua tavola e il letterati e gli scrittori erano invitati a dare lettura alle loro opere inedite. In questo salotto sfarzoso campeggiava il blasone dei Talleyrand e la principessa, dall’alto del suo sedile imponente, con in piedi mollemente adagiati su un cuscino ricamato con le sue armi, presidiava i suoi ricevimenti con maestosità.

Nello stesso momento in cui il morale e il fisico si erano trasformati in lei, il suo passo si era appesantito, la pinguedine l’aveva ingrassata e la sua robusta salute era diventata instabile. Nel mese d’ottobre 1834 diventò gravemente sofferente e fu presa da soffocazioni così violente che la duchessa d’Esclignac, sua nipote, volle chiamare presso di lei Monsignor de Quélen. L’arcivescovo di Parigi accorse subito al capezzale della principessa e quando fu confessata con grande semplicità, fece entrare i suoi servitori e tutti quei amici che erano nella stanza vicina: “ Sono felice d’essere riconciliata con Dio -disse con fermezza- e dopo avergli chiesto perdono, voglio domandare perdono agli uomini dello scandalo che posso aver causato”. Poi dopo aver ricevuto con devozione gli ultimi sacramenti, chiamò il suo notaio per mettere in ordine i suoi affari e si spense due giorni dopo in un soffocamento.

Il 12 dicembre un servizio solenne fu celebrato a Saint-Thomas d’Aquin con quella sontuosità e quello sfarzo di cui amava circondarsi, poi la bara della defunta prese la strada per il cimitero di Montparnasse.

Edited by marquise de Créquy - 12/12/2014, 23:49
 
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